Archivio per la categoria ‘#Science!’

Si racconta che i massoni si riconoscessero tra loro grattandosi reciprocamente il palmo nell’atto in cui si stringevano la mano. Proporrei che i chimici (o gli ex chimici, come me) della mia generazione, quando vengono fra loro presentati, si mostrino a vicenda il palmo della mano destra: la maggior parte di loro, verso il centro, là dove il tendine flessore del dito medio incrocia quella che i chiromanti chiamano la linea della testa, conserva una piccola cicatrice professionale altamente specifica di cui spiegherò l’origine. Oggi, nei laboratori chimici, si montano in pochi minuti apparecchi anche molto complessi usando vetreria a cono smerigliato unificato: è un sistema rapido e pulito, i giunti tengono bene anche al vuoto, i pezzi sono intercambiabili, ce n’è un vasto assortimento, e il montaggio è semplice come giocare con il Lego o il Meccano. Ma fin verso il 1940 i coni unificati, in Italia, erano sconosciuti o costosissimi, comunque preclusi agli studenti. Per la tenuta, si usavano tappi di sughero o di gomma; quando (cosa frequente, ad esempio per collegare un pallone con un refrigerante) occorreva infilare in un tappo forato un tubo di vetro piegato a squadra, si afferrava quest’ultimo e si premeva girando: spesso il vetro si rompeva, e il troncone affilato si piantava nella mano. Sarebbe stato facile, anzi doveroso, avvertire gli adepti di questo piccolo pericolo agevolmente prevenibile: ma è noto che, in qualche oscuro recesso tribale della nostra natura, sopravvive un impulso che ci spinge a far si che ogni iniziazione sia dolorosa, sia memorabile e lasci il segno. Questo, nel palmo della mano operante, era il nostro segno: di chimici ancora un poco alchimisti, ancora un poco costituiti in setta segreta. Del resto, e sempre in materia di tenuta ermetica, i professori più anziani ci parlavano ancora, con curiosa nostalgia, dei «luti», usati dai pionieri della chimica al tempo in cui i tappi stessi non esistevano: erano impasti (lutum, in latino, è il fango) di argilla e olio di lino, o di litargirio e glicerina, o di amianto e silicato, o altro ancora, che servivano a collegare i loro rozzi attrezzi. Ne è un lontano figlio il mastice per vetri rossiccio, a base di minio, che è caduto in disuso da qualche decennio. Veramente l’ingresso in laboratorio aveva in sé qualcosa del rituale iniziatico. C’era il camice bianco, per ragazzi e ragazze: solo qualche eretico, o desideroso di apparire tale, lo portava grigio o nero. C’era la spatola nel taschino, insegna della corporazione. C’era la cerimonia della consegna della vetreria: fragile, sacra perché fragile, e se romperai pagherai; per la prima volta nella carriera scolastica, anzi nella vita, rispondevi di qualcosa non tuo, che ti veniva solennemente affidato (contro ricevuta firmata). Ne nasceva un curioso commercio. Spesso, un vetro malamente esposto alla fiamma libera faceva un tic sinistro e si incrinava. Se l’incrinatura era piccola, si faceva finta di niente, sperando che alla riconsegna il magazziniere non la notasse; se era grossa, il pezzo veniva messo all’asta: a qualcosa poteva ancora servire. Poteva servire a quello a cui era andata male una preparazione, o che aveva seminato un precipitato da pesare, o che comunque, anche per ragioni private, aveva bisogno di scaricarsi i nervi; acquistava per poche lire il vetro ferito, e pubblicamente, con la maggior violenza e il peggior fracasso possibile, lo scaraventava contro il muro sopra l’acquaio. L’enorme acquaio e i suoi dintorni erano sede di un perenne assembramento. Ci si andava per fumare, per chiacchierare, ed anche per corteggiare le ragazze: ma il lavoro di laboratorio, specie quello di analisi, è serio ed impegnativo, ed anche in sede di corteggiamento era difficile scrollarsi di dosso l’ansia che vi era connessa. C’era un vivace scambio di informazioni, consigli e lamenti. Era strano: essere rimandati a un esame orale non era certo gradevole, ma veniva preso sportivamente, sia dall’interessato, sia dai suoi colleghi; era più un infortunio che un fallimento, era una disavventura da raccontare con una certa allegria, quasi con vanto, come quando ci si prende una distorsione sciando. Sbagliare un’analisi era più brutto: forse perché, inconsciamente, ci si rendeva conto che il giudizio degli uomini (in questo caso dei professori) è arbitrario e contestabile, mentre il giudizio delle cose è sempre inesorabile e giusto: è una legge uguale per tutti. Chi aveva «perso» un elemento in analisi qualitativa non se ne vantava mai; tanto meno si vantava quello che invece ne aveva «inventato» uno, aveva cioè, nel misterioso grammo di polverina che ci veniva sottoposto, trovato qualcosa che non c’era. Il primo poteva essere un distratto o un miope; il secondo, solo uno sciocco: un conto è non vedere quello c’è, un altro vedere quello che non c’è. Sotto molti aspetti le due analisi, qualitativa e quantitativa, differivano da tutto quanto fino allora avessimo visto o fatto. Non a caso spesso i valori individuali si capovolgevano, come avveniva a ginnastica nelle scuole medie. I «primi della classe» dalla memoria proverbiale, i trionfatori degli esami orali, bravi a sciogliere le intricatezze della chimica teorica, bravi a esporre con chiarezza le nozioni acquisite, o magari anche a gabellare per capite le cose non capite, capaci di mostrare sicurezza anche quando non l’avevano, a volte anche dotati di eccellente ingegno, davanti alla pratica del laboratorio non sempre facevano buona prova. Qui occorrevano altre virtù: umiltà, pazienza, metodo, abilità manuale; ed anche, perché no? buona vista ed olfatto, resistenza nervosa e muscolare, resilienza davanti agli insuccessi. Soprattutto l’analisi quantitativa, nella sua variante detta ponderale, era un esercizio estenuante. Il pedagogo, pro fessore o assistente, consegnava ad ogni studente una fiala che conteneva, in soluzione, una quantità sconosciuta di un elemento. Bisognava «precipitarlo», cioè renderlo insolubile, mediante un certo reattivo e sotto rigide modalità; raccoglierlo tutto (spesso era un lavoro di ore) su un filtro; lavarlo; essiccarlo; calcinarlo; lasciarlo raffreddare e pesarlo alla bilancia di precisione. La sequenza non lasciava spazio all’iniziativa, comportava snervanti tempi morti e un’attenzione maniaca; non era un lavoro attraente, assomigliava troppo a quanto potrebbe fare una macchina (e infatti, oggi lo fanno le macchine, molto meglio e più presto degli uomini). Posso confessarlo, ora che molti decenni sono passati: il trenta che ho riportato nel 1940 all’esame di analisi quantitativa non era meritato, o meglio, veniva a premiare un merito ambiguo. Mi era venuto in mente di compilare i risultati ottenuti dai miei colleghi nel dosaggio dell’elemento su cui verteva l’esame pratico, e mi ero accorto che, a meno di piccoli scarti, erano «quantizzati»: erano multipli interi di un certo valore. Non c’era nulla di metafisico, ed il significato era chiaro: per risparmiare tempo e fatica, il professore, invece di pesare per ogni candidato, più o meno a caso, la sua porzioncina, si doveva servire di una buretta, cioè di un lungo tubo verticale calibrato e graduato, assegnando a ciascuno un numero intero di centimetri cubi di soluzione. Me ne accertai entrando un giorno, con un pretesto, nella camera segreta dove si preparavano i quiz materializzati: si, la buretta era li, bene in vista, ancora piena della soluzione azzurrina. Bastava eseguire l’analisi anche in modo corrivo, e poi arrotondare il risultato in modo che corrispondesse al più prossimo dei gradini della mia scala. Comunicai la mia illegale scoperta solo a due amici intimi, che ebbero trenta come me. Non so se tuttora le analisi quantitative vengano somministrate con questo sistema. Se si, valga questa confessione per i professori e per gli studenti pigri. Purtroppo, il trucco non ha alcun valore negli innumerevoli casi pratici in cui il chimico, ormai laureato, viene posto davanti al triste compito di una determinazione quantitativa su una materia di origine vegetale, animale o minerale (o anche commerciale). Come è noto, la natura non fa salti, o almeno non macroscopici. In laboratorio le ragazze si trovavano più a loro agio dei maschi. In un tempo in cui, almeno in Italia, il femminismo non aveva ancora alcun peso, le studentesse ravvisavano una rassicurante continuità tra il lavoro casalingo e quello di laboratorio: quest’ultimo era solo un po’ più preciso nelle prescrizioni, ma l’analogia era evidente, e il disagio della novità proporzionalmente minore. Fra noi era diventato gradevole costume che alle cinque le colleghe offrissero il tè confezionato nella vetreria da lavoro; qualche volta, perfino accompagnato da minuscoli biscotti sperimentali, frettolosi e dissacratori, confezionati con amido e diastasi e cotti nel fornetto di essiccazione dei precipitati. Nonostante gli inconvenienti sopra detti, credo che ogni chimico conservi del laboratorio universitario un ricordo dolce e pieno di nostalgia. Non soltanto perché vi si nutriva una camaraderie intensa, legata al lavoro comune, ma anche perché se ne usciva, ogni sera e più acutamente a fine corso, con la sensazione di avere «imparato a fare una cosa»; il che, la vita lo insegna, è diverso dall’avere «imparato una cosa».